venerdì 29 dicembre 2023

BUON 2024 IN VIAGGIO CON CESARE COSMICO

Commento musicale M. K. Čiurlionis, Miške (Nella foresta)

Quella notte guardando un puntino

Ho colto il volto delle stelle,

Sapevo di brillare anch’io

Ma l’ho capito solo dal mio riflesso sorriso.

Debora Ferrari

Quale mezzo migliore di un’“aeropagina volante” per superare il confine celeste che divide un anno dall’altro? Volendo, per chi ama camminare fra le righe, si può anche attraversare il “ponterr’ante”. L’importante, dopo aver fatto tappa alle “Biblioteche Naturali dei Continenti”, è raggiungere “la Casa Errante che fa entrare solo chi vuole lei”. Che certamente accoglierà - fra nuvole multicolori e cieli straordinariamente illuminati - quelli che amano lasciarsi trasportare dalla fantasia, dallo sguardo perennemente incantato di Cesare Cosmico: ogni emozione profonda in simbiosi con quelle contenute nelle sue infinite valigie.

Della magia per immagini dell’autore, Nicola Perucca - artista colto tanto raffinato quanto popolare - abbiamo già parlato in questo blog, incantati dall’esposizione delle sue Città librerie e altre storie all’Atelier Capricorno di Cocquio Trevisago nel 2021 e del suo Mare in cammino all’Hotel Byron di Lerici nel 2023, con la cura di entrambe le mostre da parte di Debora Ferrari e relativi cataloghi editi da TraRari TIPI. Che non a caso quindi pubblica anche questo nuova esplorazione di orizzonti dello stupore.

Cesare Cosmico nasce nel 1995, ma gli appunti, gli schizzi e le prime idee risalgono a qualche anno prima. Disegni nati al volo, come spesso accade, su album e quaderni di vario tipo e dimensione, su fogli sparsi e anche tovagliette di trattoria, supporto ancora adesso occasionalmente utilizzato dall’autore. Viaggiatore, viandante munito di una valigia classica, simbolica, piena di rimandi, memorie e riferimenti di vario genere. Pellegrinaggio laico nel mondo del Sogno che acquista ancora più forza e colore negli ultimi anni fino ad assumere la forma compiuta di romanzo-diario a più voci. Perché Nicola Perucca è anche scrittore e nelle pagine di questo libro alterna la sua prosa ai versi di Debora Ferrari, poetessa prima ancora che curatrice d’arte (e autrice di una multiforme-multicolorata Introduzione).

Nicola

Da un estremo all’altro, da una dimensione al suo opposto, in costante equilibrio, adattandosi alle mutazioni. Dai ghiacci ai fuochi, lungo i regni sommersi e poi nei villaggi di alti monti. La sua valigia testimonia, dentro e fuori, queste esperienze, è cangiante nella forma e nel colore, nella consistenza e nella temperatura: bussola e specchio, deposito, spugna, grancassa, giaciglio, clessidra e caricatura, buffonesca e magnifica, fontana e vulcano. Piena di memoria ed appunti di cose da fare, piena delle etichette, dei tagliandi, delle cartoline di moltissimi posti, scampoli di tappeti volanti, bandiere appallottolate, disegni di pochi centimetri e pezzi di portolani, cartine sbiadite e sporche, francobolli di rara grandezza e preziosità. La Valligia, ad esempio, che è già un luogo in sé, il manico è un ponte ed è fatta di monti, di fiumi. La valigia musicale, una sorta di ghironda del viaggiatore…

Debora

Presto, la voce ho sentito

Di un colore da profumi evocato. Vai

Nel denso apparire del giorno

Dove forme e battiti vagano

Pronti a fermarsi su una tela.

Misura la tua voce ora, nel mio sguardo.

Grafica creata insieme a Flavia Ciglia (FLAI Graphic Design)

Tutto sembra proprio tornare, sempre pronto a ripartire: “Terra prima sfera poi ellissoide, geoide, meraviglioso enorme granello di polvere appiattito ai poli 1/298,25 volte, vagante con regole precise per universo piatto, euclideo, non più sferico neppure lui, neanche iperbolico: sta tutto in un foglio, meglio se colorato. Meglio ancora se in una valigia con nomi e adesivi di enormi contesti appiccicati all’esterno. Dentro: intimo e vestiti su misura per abitare e sentirsi parte di qualcosa di più grande. Nome ironico del suo possessore, Cesare, viaggiatore imperatore nemmeno della propria valigia - è lei che guida - perché la meraviglia non è mai una conquista banale ma un incontro alla pari fra emozioni profondamente umane e profondità, altezze della terra, del cosmo”.

(Luca Traini, Prefazione).


Continua nel frattempo fino al 24 Giugno 2024, presso la sede del MAP_Museo Arti e Paesaggi nella Torre Pentagonale Obertenga di Arcola (SP), la mostra ARCHETIPI DANZANTI Opere di Walter Tacchini e del Museo Castiglioni di Varese, sempre a cura di Debora Ferrari e del sottoscritto, catalogo TraRari TIPI.

sabato 23 dicembre 2023

NATALE 1968: RADIAZIONI DI FONDO

Un fantastico televisore bianco e nero Condor sale una doppia scalinata esterna ad angolo acuto, scomoda e stretta. Fino all’ingresso dell’appartamento tutto storto - modernista, espressionista - dove ce ne stiamo soli soletti io e mia madre a fine autunno ’68. I tecnici fissano stupiti la casa. È il mio primo ricordo.

Il nome dell’apparecchio è perfetto perché abitiamo nella sperduta frazione di Pogliana, in cima a Bisuschio (VA). Vola, grande Condor, vola e portaci dall’etere le immagini del mondo di fuori, ché quando si esauriscono le pile la radio resta una scatola di plastica nera e muta - tu invece ti nutri di elettricità, quella che dà luce alle lampadine - e il telefono c’è solo al bar.

Casa assurda, tutta sghemba e con porte sempre chiuse su altri spazi disabitati che immagino e temo neri come la notte. Come le rare volte che fa irruzione mio padre. Per fortuna che sotto c’è lo stanzone delle Elementari pluriennali, dove la mamma insegna dalla prima alla quinta tutte insieme con alunni uno più simpatico dell’altro (sono la loro mascotte, non ho neanche tre anni). L’ultima volta che ci sono stato, a inizio secolo, tutto quell’edificio strampalato era sede dello Speleo Club Valceresio.

Nelle profondità della terra, del tempo, come quella specie di neve sporca nello schermo della tv quando finivano i programmi, accompagnata da uno strano rumore che sembrava di applausi. Qualche anno prima Arno Penzias e Robert Wilson avevano invece scoperto che… Ma chi lo sapeva? Io sarei rimasto anche a contemplare per ore il meraviglioso magma puntiforme danzante in quella pancia di vetro, però dovevo andare a dormire. Così lanciavo, per gioia o protesta, qualche giocattolo sul tetto, giusto fuori dalla finestra della cucina. E mia madre lo andava eroicamente a recuperare.

Il televisore era il giocattolo più grande per il Natale alle porte, impossibile da gettare sui coppi, perché, mi fu spiegato, si sarebbe rotto, forse irreparabilmente, al contrario dei soldatini. E io ero stregato da quello scrigno luminoso pieno di esseri in movimento - interi, a metà, vicini, lontani - che prima o poi, immaginavo, sarebbero voluti uscire fuori, come dalle foto, per riprendersi i colori. I colori della splendida natura in cui eravamo immersi, dove potevo sgambettare libero come Bambi finché c’era il sole. Anche Mina dopo aver cantato White Christmas a Canzonissima, anche tutti i suoi ballerini sbucati per magia da enormi pacchi regalo sarebbero usciti multicolor, discolor, versicolor dallo schermo, danzando da Villa Cicogna fino a noi per ballare sul piazzale della chiesa di sant’Anna e Sebastiano.

Però un giorno, mi assicurò il padrone del bar, sarebbe arrivata la tv a colori, come in America: sarebbero stati più felici pure i cartoni animati della televisione svizzera! Chissà, avrebbero fatto un documentario addirittura su Pogliana, che con la neve, il ghiaccio, d’inverno era praticamente isolata. Un giorno avremmo parlato a distanza con le nostre immagini, diceva, nel 2001. Non era un’idea sua - l’avrei scoperto dopo - ma di un film di Kubrick appena uscito nelle sale italiane. Diventerà uno dei miei preferiti.

Il viaggio oltre Giove verso l’infinito della pellicola tornò, molto tempo dopo la frazione di Pogliana - dopo Fermo, Porto Sant’Elpidio e Varese - nello scrigno luminoso di un altro televisore a tubo catodico, Sinudyne, questa volta a colori, quand’ero alla fine dell’università. Per quanto impegnato in studi umanistici, restavo sempre affascinato dagli antichi amori per scienza e la tecnologia. E avevo finalmente scoperto che quanto scovato da Arno Penzias e Robert Wilson quattro anni prima del mio Condor. In quel gioco fra coriandoli bianche e neri, in quel rumore si celava l’uno per cento dell’eco del Big Bang. Musica per le mie orecchie sempre puntate all’origine di ogni cosa. I due scienziati l’avevano scoperto quasi per caso. Dico “quasi” perché non amo il “caso”: spero da sempre che tutto abbia una ragione e ogni “mistero” la sua risoluzione. Come il perché fossi finito a Pogliana, che probabilmente con la poiana c’entra fino a un certo punto. Perché mia madre dalle Marche fosse finita a insegnare a casa di dio (che se sta in cielo certo là era più vicino). Perché dal Tempo di Planck - 10−43 secondi - quello che dovrebbe essere l’inizio,  fosse scaturita perfino la notte che mi sorprese la prima volta che andai da solo a comprare un’intera fila di pane in quella frazione, a inizio primavera ’70, già compiuti quattro anni, e cento metri di distanza sembrarono cento chilometri, l’inizio della fine. Finché non scese la mamma da quelle due scalinate sghembe e strette ad angolo acuto. A rassicurarmi che avere un’origine non è poi terribile come sembra.

Luca Traini

domenica 24 settembre 2023

IL VOLTO DELLE PAROLE


SCRITTURE DI LAGO SCRITTURE DI LUCE

Il volto delle parole

Fotografie di Paolo Della Corte e Raffaella Grandi

A cura di Debora Ferrari, Luca Traini

Banca Generali Private Como, dal 29.09.23 al 29.10.23

Viaggiamo in mondi infiniti e diversi quando siamo dentro un’opera di narrativa, incontriamo personaggi, odoriamo paesaggi, vibriamo di emozioni. Dalle parole scaturiscono miriadi di colori e suoni ed echi del nostro vissuto, non solo della storia. A quale epoca si rifaccia il testo non importa, siamo in grado di viaggiare sempre nel tempo e di cambiare noi stessi l’impatto col mondo descritto. Ma quand’è che incontriamo l’autore? Chi è l’alchimista del verbo capace di costruire mondi prima mai esistiti, se non pensati dalla sua anima creativa? (Debora Ferrari, Luca Traini).

La promozione della cultura in tutti i suoi aspetti è un aspetto fondamentale della mission di Banca Generali Private di Como e del suo District Manager Guido Stancanelli. Una delle punte di diamante di quest’impegno è certamente la promozione del Premio Scritture di Lago, nato per diffondere la conoscenza dei laghi prealpini attraverso la letteratura e incentivare sia la lettura che la scrittura di testi ambientati sui laghi, giunto quest’anno alla IV edizione.

Sulla scia del sempre maggiore successo acquisito dal Premio a livello nazionale, Banca Generali Private ha deciso di presentare nella sua sede di Via Lungo Lario Trento 9 un’importante mostra fotografica che ha per tema proprio il mondo della scrittura: SCRITTURE DI LAGO SCRITTURE DI LUCE Il volto delle parole.

L’esposizione si articola in 38 fotografie, che vedono rappresentati sia noti scrittori italiani affermati a livello internazionale che vincitori e finalisti del Premio Scritture di Lago, e vuole sottolineare tanto l’importanza dell’identità individuale quanto l’esperienza vitale che passa alla sapienza della parola scritta, alla sua unicità.

Nel primo caso si tratta di 24 ritratti a firma di uno dei più rinomati fotografi italiani, Paolo Della Corte, e vedono protagonisti: Simonetta Agnello Hornby, Antonia Arslan, Tullio Avoledo, Raffaello Baldini, Riccardo Calimani, Guido Conti, Carlo Della Corte, Alain Elkann, Luciano Erba, Giovanni Giudici, Franco Loi, Claudio Magris, Luigi Meneghello, Giovanni Montanaro, Alberto Ongaro, Fernanda Pivano, Giuseppe Pontiggia, Mario Rigoni Stern, Giuliano Scabia, Fulvio Tomizza, Alberto Toso Fei, Cesare Viviani, Andrea Zanzotto, Alvise Zorzi.

Vincitori e finalisti del Premio Scritture di Lago, sia nella sezione degli Editi che in quella degli Inediti, vengono invece proposti negli scatti di una fotografa emergente di particolare sensibilità psicologica come Raffaella Grandi: Camilla Baresani, Federica Brunini, Anna Danielon, Patrizia Emilitri, Gaia Manzini, Silvia Montemurro, Andrea Salonia, Franco Vanni e Giuseppe Battarino, Angela Borghi, Emilia Covini, Erica Gibogini, Alberto Pizzi. È inoltre presente un ritratto della scrittrice Marina Di Guardo opera di Luca Pozzaglio.

Paolo della Corte, figlio dello scrittore Carlo Della Corte (Premio Selezione Campiello 1977, 1990 e prezioso collaboratore di Fellini), insegna Fotografia all'Accademia di Belle Arti di Venezia. Nei suoi archivi compaiono più di cinquecento artisti e scrittori di indiscussa fama nazionale e mondiale. Sue foto sono state pubblicate nei principali giornali e riviste italiani e internazionali (Specchio de La Stampa, Venerdì di Repubblica, Sette del Corriere della Sera, Paris Match, Le Monde, Liberation, Die Zeit, The Guardian, Panorama, L’Espresso, Gambero Rosso). Il suo libro e la sue mostre più recenti sono (R)esistere a Venezia (TraRari TIPI, 2019) e Venezia2050 d. C.… e venne l’acqua grandissima (Sala Lettura dell’Ateneo Veneto, 2021).


Raffaella Grandi, fotografa dedita in particolare al ritratto e all’interior disegn, ha conseguito il Master di Reportage presso l’Accademia di Fotografia John Kaverdash di Milano. Ha esposto alla Libreria Feltrinelli di Varese per la Varese Design Week con la personale House Invaders e altre geometrie (2018), riproposta lo stesso anno alla Galleria Falchi di Diano Marina. Sue foto sono state presenti nelle mostre curate da Debora Ferrari e Luca Traini OBIETTIVOSOGGETTIVO Arte fotografica di Roberto Molinari (Museo Civico Floriano Bodini, Gemonio, 2018) e COME LA LUCE Dai Macchiaioli allo Spazialismo (Castello di Masnago, Varese, 2019), così come nei rispettivi cataloghi editi da TraRari TIPI.


Il pubblico del Premio, il pubblico delle mostre su territorio insubrico e lombardo potrà così assistere a un’esposizione inedita e originale, mai realizzata prima, che lo porterà a conoscere i volti della nostra storia letteraria e darà un posto ai vincitori del Premio nel panorama narrativo e poetico nazionale. Alle foto saranno unite brevi biografie con bibliografia importante dell’autore, dove presente.

Al progetto fotografico si unisce lo storyboard di Pier Luigi Acerbi che illustra la nascita della statuetta-stele, nuovo premio per Scritture di Lago, opera in ceramica di Walter Tacchini, che sta esponendo col sostegno di Banca Generali Private di Como in vari territori (Varese-Como 2022; Arcola 2023).

lunedì 19 giugno 2023

LUCA TRAINI A STORYTIME

Martedì avrò il grande piacere di essere intervistato da Storytime, la webradio che va in onda su Radio Italia 5 e Radio Canale Italia dando  voce ai professionisti, alle storie dal territorio e al fare impresa spiegando l’amore per  il proprio lavoro. L’intervista potrà essere ascoltata fino a giovedì.

È un’occasione importante anche per rivisitare il curriculum vitae sul mio blog, che ha da poco superato 2.400.000 visualizzazioni.

È dal lontano 1986 che ho fatto dell’arte, in tutte le sue declinazioni, la ragione della mia vita. Originario di una regione, cresciuto in un’altra e poi vissuto in un’altra ancora, non ho mai sentito di appartenere a un posto più di un altro. Tanto legato alla mia Italia quanto poco italiano nelle scelte che mi hanno ispirato. Europeo e contento di esserlo come dell’eredità classica greco-latina approfondita con rigore e passione ma cosciente delle terribili ombre che ancora gravano sull’essere “occidentale”, che, proprio per amore e studio, cerco di evidenziare in ragione del futuro.

Poesia ,prosa, teatro (ho recuperato il mio Watteau

e sto ancora ripescando i frammenti dei miei Teatri di guerra come reazione ai recenti orrori)

e curatela d’arte sono sempre stati rivolti in primo luogo ai giovani.

Non si spiegherebbe altrimenti perché passare dalle mostre dedicate al fotografo personale di Picasso André Villers

all’arte dei videogame portata alla Biennale di Venezia con Neoludica.

Ma i presupposti erano già nel mio romanzo d’arte Il Dittico di Aosta, dove rievocavo i videogiochi poetici del IV secolo di Optaziano Porfirio.

La questione sta tutta nel prendere coscienza a 360° di passato e presente senza timori reverenziali perché la lezione della storia dell’arte che prediligo è quella del continuo stimolo a pensare, immaginare e realizzare liberamente, con la propria testa, cosa ancor più difficile oggi travolti da una temperie confusa di sollecitazioni e dati.

Il contemporaneo non ha bisogno di parole d’ordine,sempre superficiali, ma di suggerimenti per un ordine creativo possibile da mettere ogni volta in discussione. È una scommessa formidabile quella di mettere in connessione senza remore passato e presente in vista di un futuro migliore:io ci credo - e continuo a crederci - da quando divenni vicepresidente di un importante spazio culturale ad appena 20 anni. La "morte dell’arte", pianto di coccodrillo dei mediocri, non avrà mai il sigillo di nessuna anagrafe o censimento (parola di chi ci ha lavorato prima d’insegnare storia e filosofia).

L’aggiornamento continua

Luca Traini

lunedì 12 giugno 2023

LA MADDALENA DI CARLO CRIVELLI: IL PRIMO AMORE

Commento musicale Josquin Desprez, Praeter rerum seriem 

La ricordavo sulla copertina di un catalogo - e dio sa quanto l’ho cercato – ma forse era un sogno quel libro, come le donne del pittore.

“Mamma, mi sono innamorato”.

“Ancora?”.

“Sì, ma questa volta è una signora?”.

“Una signora?”.

E indico il dipinto: “Questa. Ti piace? Ha i capelli biondi come te”.

Carlo Crivelli, Maria Maddalena, 1480, Rijksmuseum, Amsterdam

“Certo che mi piace. Mi piace tanto. Ma cosa diranno le tue fidanzatine dell’asilo?”.

Questo sì che sarà un problema - e non solo all’asilo.

È l’estate del 1970 e ci ritroviamo ospiti della zia di mia madre, Linetta, dove l’anno prima avevamo assistito al lancio dell’Apollo 11 - ero certo di aver visto la luce del razzo alla finestra  - e al successivo allunaggio nel Mare della Tranquillità (nome stupendo, sospirato).

Io, innamorato della Maddalena, sulla via dei 5 anni

La prozia aveva evitato il destino di contadina e insegnato alla mamma, di nascosto, a disegnare a carboncino. Dovrebbe scendere a lavorare nella piccola impresa di calzature del marito, al piano terra della loro palazzina, e invece si ferma, mi dà un bacio: “Ma quante ne pensi! A d’è bella ‘sa Maddalena, eh? Ma è ‘na santa: non la poi sposa’.” - e ride - “Però de Crivelli ha stroato un quadro pure ecco a Capudarca, jò la chiesa: chi sa se se pò jillu a vede’?”.

Vittore Crivelli, Polittico di Santa Maria in Capodarco, (foto Fondazione Federico Zeri)

Era vero che c’era un Crivelli a Capodarco, frazione di Fermo, ma era del fratello di Carlo, Vittore, e - forse perché non c’erano sante (o non potevo sposarle) - dal vivo e nel vivo non lo vidi mai.

Ma, come diceva mia madre (che non vedeva l’ora di andarsene al Nord), che c’erano venuti a fare quei due nelle Marche? Da Venezia poi!

Scappavano o quasi, un po’ come noi, come avrebbe fatto in seguito il Lotto. Le Marche fra XV e XVI secolo erano un territorio tutt’altro che marginale e, in fatto di traslochi, l’esempio l’avevano già dato gli angeli con la Santa Casa di Loreto e il relativo miracolo economico generato dal crescendo dei pellegrinaggi.

RECANATI: LORENZO LOTTO E GIACOMO LEOPARDI Lontananza di due solitudini (2008)

E poi anche nella Serenissima non c’era posto per tutti, specie per i più inquieti. Infatti Carlo Crivelli, 517 anni prima, aveva rapito per amore Tarsia, moglie di un marinaio che era chissà dove, con cui aveva poi avuto per mesi una relazione appassionata, consensuale e con la donna riconosciuta parte attiva, alla faccia della Scolastica, dagli advocatores che poi li avrebbero condannati a sei mesi di detenzione. Un’inezia rispetto, per esempio, alla Bologna universitaria, dove gli adulteri venivano condannati a morte, o alla colta Ferrara, che condannava al rogo le donne adulterine. A questo proposito leggete l’ottimo articolo di Liliana Leopardi .

Scandalo, ipocrisie e timore di vendetta da parte di marito tradito e famiglia: Carlo, scampato anche alla pestilenza in carcere, abbandona per sempre Venezia e raggiunge Zara seguito dal fratello Vittore, probabilmente per evitare rappresaglie trasversali.

Di tutto questo periodo, dell’artista, resta poco di cui siamo certi. Nel contesto di un’inquietudine decisamente più grande che investiva anche la città in cui i due pittori si erano rifugiati, con la grande avanzata dell’impero ottomano che pochi anni prima aveva conquistato Costantinopoli.

Carlo Crivelli, Polittico di Massa Fermana, 

Mentre di dubbi si accumulano l’unica sicurezza è che Carlo è il primo ad avventurarsi nelle Marche, perché nel 1468 era già nella mia terra. Forse perché temeva altri guai e vendette della Dalmazia veneta? Chi può dirlo? Fatto sta che in quell’anno firma il Polittico di Massa Fermana, quel minuscolo paese dall’ingresso gigantesco - la Porta Sant’Antonio - così strana e bella.

Massa Fermana (FM), Porta Sant'Antonio, XIV sec. (foto Paula Castelli)

Cosa ribolliva in quell’uomo che trapassava nell’artista? Lo splendore tardogotico della pala principale in simbiosi con le forme già così umane, umanistiche dei quadri della predella. Nel Cristo nell’orto del Getsemani, in quello che risorge c’è l’eco del Mantegna (Crivelli era stato a Padova)? Nella flagellazione il pavimento piastrellato richiama quello di Piero della Francesca a Urbino? Domande sorte in seguito, io all’epoca ero tutto preso dalla Madonna mamma che pareva tanto stanca, dal quartetto dei suoi amici santi ora tutto lusso ora trasandati e stracci. Compagnia strana per Gesù bambino, che sembrava distratto con la voglia - se lo capivo! - solo di giocare a palla.

Carlo Crivelli, Polittico di Porto San Giorgio (foto portosangiorgio.it)

Avrei scoperto decisamente più tardi che aveva dipinto un Polittico a Porto San Giorgio nel 1470, dove esattamente 500 anni dopo sarebbe nato mio fratello Luissandro, biondo come il bambinello della Madonna Cook che sta alla National Gallery di Washington. Perché nell’Ottocento avevano demolito la vecchia parrocchiale in cui stava l’opera che, smembrata, avrebbe diviso il suo splendore fra Inghilterra, Polonia e Stati Uniti.

E proprio il fratello di Carlo, ormai trasferitosi ad Ascoli Piceno, approda nelle Marche qualche anno dopo, intorno al 1476. Vittore occupa lo spazio lasciato libero nel Fermano dipingendo anche un polittico a Sant’Elpidio a Mare (che sul mare non ci sta affatto), il vecchio comune nobile alle spalle di quello giovane e proletario, Porto Sant’Elpidio, in cui eravamo finiti ad abitare.

Vittore Crivelli, Polittico di Sant'Elpidio a Mare, 1480-69 (foto regione.marche.it)

Vittore circondava più da vicino il nostro paese con la sua pacata bellezza, quasi figlia di campi, colline e mattoni in tutte le loro sfumature di giallo.

Carlo invece sembrava abbracciarmi a superiore distanza, con quella ricerca del sublime che sconfinava nei cieli. Camerino, Matelica, Fabriano, Pergola e Ascoli. Soprattutto Ascoli, con quell’Annunciazione dove l’angelo ha fretta di condividere qualcosa di bello mentre tutti guardano di qua e di là e parlottano.

Carlo Crivelli, Annunciazione di Ascoli, 1486

Solo la Madonna e il pavone al piano superiore se ne stanno quieti, con quella luce che scende dall’alto e dovrebbe portare pace anche se il cielo sembra l’Adriatico in tempesta.

Poi si vorrebbe tornare a essere quei piccoli angeli che sostengono le braccia del Cristo nella Pietà di Montefiore dell’Aso, perché c’è quella cosa che allora non capivo. Gli esseri umani e quello che fanno non dura per sempre.

Carlo Crivelli, Pietà di Montefiore, 1471

Si muore ad Ascoli Piceno come a Fermo. A volte mi chiedo ancora come sia possibile. Zia Linetta,  anche tu sei morta, a Capodarco, e non ricordo quando.

La nostra Maria Maddalena sale l’ultimo gradino sollevando il mantello in punta di dita. L’ampolla degli unguenti, che forse potrebbero guarire, non si aprirà. Lo sguardo resta impenetrabile anche quando la ritrovo ad Amsterdam nel 1987. Certe verità, forse, erano accessibili al bambino che non ero e non posso essere più.

Carlo Crivelli, Predella della Resurrezione dal Polittico di Massa Fermana

Ora diciamo che resta l’arte, in fondo il miglior sostituto dell’amore.

E resta un libro, che non trovo più.

 

Luca Traini


CHET BAKER

Di passaggio a Roma, tutto preso dai miei pensieri, un amico mi scrolla indicando due persone: “Guarda, quello è Chet Baker!”.

A quell’apparizione, sapendo sì e no chi fosse, replico giusto “Ah!”, per fargli un piacere.

1987. Vent’anni, ventuno: il jazz lo mastico poco. Non sapevo che Miles Davis - lui conoscevo, amavo la musica dell’amico di mio fratello Jimi Hendrix - lui agli esordi era stato sconfitto da quell’uomo sgangherato che pareva vecchissimo.

Anni dopo scopro la storia del concorso della rivista Down Beat, di quest’altro ventenne bello come il sole che aveva suonato la tromba di Louis Armstrong - un altro che mi piaceva fin da bambino - meglio inoltre di Clifford Brown e Dizzy Gillespie. Ma era il ‘54, roba in bianco e nero, e anche lui, a trent’anni di distanza, sembrava tutto colori sbiaditi, come un vecchio film delle tv private. E poi aveva lavorato a lungo in Italia e l’amava, cosa che all’epoca non deponeva molto a suo favore:

“Ma che ci viene a fare qui se ha la fortuna di essere americano? Ha suonato con Franco Cerri? Cerri chi? Ah, quello della pubblicità del Dixan? Con Papetti? Quello delle donne nude in copertina? Cos’è? Bukowski versione musica?”.

Domande sciocche nello stile di quegli anni, anche perché i suoi dischi costavano troppo, come i locali dove suonava. Jazz non elettrico, roba da vecchi - ma Bukowski, lui sì che sarebbe invecchiato davvero, fino agli anni ’90, quando tutto sarebbe andato bene, Kurt Gobain a parte, tutto revival.

Devo aspettare trentesimo/trentatreesimo anno - tutti traguardi considerati siderali, difficili quando diventi artista sul serio a venti - e una specie di nuovo millennio che porterà un sacco di grane per iniziare a comprendere genio e sofferenza di quella specie di angelo, sempre intento a strapparsi le ali. Collegare quella presenza così fuggevole in vita a quanto resta vicino e lontano in cd, filmati alla televisione e poi su YouTube. Sempre in ritardo, ma predisponendo per cuore e orecchie qualcosa di simile alla sua dentiera dopo che gli avevano spaccato i detti - roba di eroina, quelle siringhe innestate anche nei giardini della mia scuola media: “Non toccate, non giocate sull’erba: solo nel campo di pallavolo”. “Ma è di cemento”.

My Funny Valentine, non potremo neppure imboscarci tranquilli ai Giardini Comunali, al liceo.

Eppure, lo senti, resta qualcosa di blu come diceva Rino Gaetano, il suo Almost blue come un giorno che potrebbe essere sereno dopo una lunga notte, qualcosa che avrebbe potuto disintossicarlo da droga, alcool e paure prima di incontrare quelli che se la cavano anche con la proiezione d’ombra del sole. Il canto - e forse la voce stessa - che sembra usare il corpo come uno strumento e probabilmente è l’opposto (vallo a dire alla testa) - aveva già modulato Born to be blue.

Let's Get Lost, perdiamoci, Over The Rainbow, l’arcobaleno è un gelato: se gli artisti restano bambini - cosa vera fino a un certo punto - Baby Breeze anche in Autumun Leaves. E io ho sfiorato solo il tuo inverno.

Quel tuo primo cd che compro a tale distanza, No Problem (1980) - titolo da sogno - quante volte accompagna e solleva la luce strana di certi primi pomeriggi, quelli sempre meno tollerabili più passano gli anni. E mi ripeto “No problem” guardando quel tuo ciuffo improponibile. Soffio di vento, soffio di vita in un interno, quando la memoria entra come una brezza da uno spiraglio lasciato aperto e non ti fa male. Poi chiedi cosa significa Sultry Eye, l’afa negli occhi, e neppure qui c’è confusione. Il significato è “occhi sensuali”: fascino, persistenza dell’amore. Finché c’è quello anche l’arte.

Ci sarebbe il resto del disco, gli altri che seguono, date di esecuzione che si accavallano e cerco di sistemare in qualche modo. E l’angelo fra le note che ritrovo ogni volta se vedo uno dei film che amo di più: I soliti ignoti.

Tu precedi nel volo finale Monicelli di 22 anni. Finestra spalancata del reparto di urologia a Roma o di un semplice hotel ad Amsterdam, il risultato è sempre lo stesso.

Quello che resta continua a lanciarsi nel vuoto e risalire in volo, come le rondini.

Luca Traini

domenica 11 giugno 2023

ELOGIO DELL'INDIRIZZO

 

Tutta la storia che c’è in me sosta davanti al numero di una via che sembra sorgere direttamente dalla pietra. La sua spaccatura potrebbe riflettere quella del muro e il quadrato del numero cercare sostegno nell’architrave della porta.

Tu entri nel mondo fantastico della numerazione umana, in quella formidabile tensione a dare una misura a tutto quanto attraversiamo.

Dare un nome, accompagnare con numeri: le nostre vite diventano vie da percorrere.

La cifra è precisa, la cifra è profonda. Vicina a. Lontana da.

La cifra che cerchi segue e precede altri numeri da cui poi distrae, come una rivelazione.

La cifra giusta è gentile, si dissolve in una realtà che credi senza numeri e trovi.

La cifra può essere anche crudele, senza nome, assenza di parola, di simbiosi, Auschwitz.

La cifra che invece libera il passo verso la casa di chi ami è il dolce preludio a un incontro, si eclissa, lascia spazio a tutti i contenuti di quei respiri che sono le parole.

Trovare il numero giusto nell’abisso della matematica. La traccia, la vita, oltre il muro a protezione dell’infinito

Luca Traini

(vedi anche lucatraini.blogspot.com/p/poesia)